Non saprei dire in che giorno giunsi a Torino per la prima volta. Sicuramente era l’estate del 90, lo ricordo perché per le strade si riversavano, in quei giorni, i coloratissimi tifosi verde oro del Brasile, che era testa di serie nella coppa del mondo.
Giungemmo in treno, mio padre ed io. Mio padre aveva un maestro di scuola elementare, Pietro Giovenale Brunetto, che trascorreva la pensione a Dronero, sua cittadina natale.
Brunetto era stato a Roma sull’ultimo scorcio degli anni ’30, all’inizio della carriera da insegnante. Poco dopo, era stato trasferito a Ozieri, in Sardegna come direttore scolastico.
Tuttavia, in quei brevi anni romani, aveva stretto un rapporto di intima amicizia con la famiglia dei miei nonni, tra i pochi piccolo borghesi della Trastevere di allora, probabilmente. E sì, che Trastevere era, a dirla tutta, un rione popolarissimo mentre mio nonno era ragioniere e lavorava alla Società Romana di Elettricità.
Brunetto aveva continuato, per tutta la vita, a corrispondere con la famiglia di mio padre e, quindi, con mio padre. Poi, improvvisamente, mio padre decise d’andarlo a trovare, a oltre cinquant’anni dacché era stato suo maestro elementare.
Prima lo fece da solo, un giorno che era in trasferta a Savona.
Poi, volle farlo con me.
Brunetto ci accolse alla stazione di Fossano, dove arrivammo in treno da Torino, appunto. Guidava una vecchia 127 beige, e lo faceva in modo vagamente spericolato.
Il ricordo che ho di quel giorno è legato ai Ciciu di Villar San Costanzo, formazioni di erosione sparse in mezzo al verde della Val Màira, al gusto insolito dei droneresi, rigorosamente al rum e con la meringa intorno, e allo studio polveroso del maestro, colmo all’inverosimile di libri.
Il figlio del maestro aveva scalato l’Himalaya. Poi era morto, pochi anni prima, in un banale incidente di arrampicata in Val Grana. Ricordo molto bene la sera in cui mio padre lesse commosso la lettera autografa del maestro che narrava la tragedia della perdita di quel figlio scalatore, eravamo intorno a lui nella loro camera da letto di Roma. Era sera.
Non rividi più il maestro Brunetto in tutta la mia vita.
Mio padre andò ancora a trovarlo alcune volte. Poi ci giunse, una sera, una lettera della figlia che ci narrava della dolorosa perdita dell’anzianissimo padre.
Ritornati a Torino, ricordo che visitammo la Mole e Superga, dove mio padre s’intrattenne con i brasiliani a commentare la tragedia, avvenuta nel ’49, quando l’aereo in atterraggio a Collegno aveva urtato la collina e l’intero Grande Torino era perito nello schianto. Bacigalupo, Ballarin, Mazzola e compagni. Mio padre li ricorda tutti a memoria, forse anche per via dell’evento tragico della sua vita, la perdita della sorella Giuliana, avvenuta appena un mese dopo per colpa di un fuoco d’artificio della festa di Sant’Antonio. Lui e Giuliana erano rimasti, come tutti gli italiani, scioccati dalla tragedia di Superga. Era normale. Non era solo la squadra più forte d’Italia, ma anche, in pratica, l’intera nazionale.
Di quel primo breve soggiorno torinese – eravamo al Genio, vicino alla stazione – ricordo solo di aver scoperto per la prima volta i grissini, tanto diversi da quelli che mangiavamo a Roma nei cestini del pane delle trattorie.
Stasera, passeggiavo per le vie del centro in attesa di entrare al Carignano, che dei teatri torinesi resta il mio prediletto. Ero in Piazza San Carlo, sicuramente la più bella della città. Pensavo… sono quasi quarantenne e vivo solo, con mia figlia che di anni ne ha quasi cinque, in una città che non è la mia.
Non ci sono nato, e va bene, ma non ho mai neppure desiderato viverci. A dirla tutta, quando arrivammo a Torino con mia moglie ben nove anni fa, la città ci dispiacque molto. Forse perché avevamo preso casa nella curiosamente nota via Ormea (noi ne ignoravamo la storia, evidentemente), forse per il caldo torrido di quell’estate del 2005, forse per via dell’inverno grigissimo e freddo di San Benigno Canavese, dove ci trasferimmo poco dopo.
Fatto sta, che di Torino e del Piemonte, ci piaceva in buona sostanza solo il cibo.
Io ero un romano vero, verace, certo, senza un accento forzato, tuttavia Rromano de Roma, come diciamo noi.
Roma l’ho sempre amata visceralmente. Roma è pregna di significati, densa di scorci unici, come la cupola vista dal buco del portone del palazzo dei Cavalieri di Malta del Piermarini sul grande Aventino, di sapori unici, come quello dei filetti di baccalà a Santa Barbara dei Librari, di rumori unici, come quello del cannone del Gianicolo a mezzogiorno. E poi il Papa, l’Appia Antica con le sue catacombe, le Basiliche, il cielo blu.
Forse proprio il cielo blu cobalto è la cosa che più manca qui a Torino.
Qui, il cielo è celeste. Solo celeste. Anche nelle giornate più terse, come è stato sabato scorso, vedi una meraviglia di monti innevati tutt’intorno, poi però guardi su e il cielo è solo celeste.
Vivo in centro.
Per dirla meglio, vivo nel Cit, la piccola Torino estesasi con straordinaria regolarità all’inizio del Novecento con le addizioni a destra e sinistra dell’antica Strada di Francia e l’interramento definitivo dei navigli e delle loro chiuse.
Siamo al terzo piano di Casa Pecco, una delle belle dimore borghesi Art Déco, fatta costruire nel 1902 dall’ingegner Pecco ad opera dell’architetto Pietro Fenoglio, lo stesso della meravigliosa villa Fenoglio La Fleur, che dista poche decine di metri dal nostro portone.
La sera, e talvolta anche la mattina, passeggio con Nero, il meticcio croce e delizia della nostra casa – lo cerco con la coda dell’occhio… chissà dove sarà? – passeggio, dicevo, per le vie del Cit Turin. È bello.
A dir le cose come stanno, è assai strano sentire che questa città sta, gradualmente, assumendo un significato personale per me.
Non so se sarà mai la mia città. Non so se ci morirò, né se ci morirei. So che, oggi come oggi, ci vivo bene.
Le passeggiate “canine” sono tutto sommato brevi, raramente superano il quarto d’ora, eppure mi istillano un senso di fiducia in ciò che mi circonda. Così è anche il grandioso panorama che vedo ad ogni alba, dal balcone della cucina, con il cielo che s’illumina di una straordinaria luce dietro la cuspide improbabile di Santa Zita – che un tempo era seconda solo alla Mole – verso le Alpi, altissime, dal Rocciamelone al Rosa.
Ricordo l’emozione, anni fa, di sedersi ai caffé, che per me, romano, non esistevano. Dapprima andavamo spesso al Bicerin, in piazza della Consolata, dove il buon Cavour si dice prendesse il classico caffé e cioccolato, il bicerin, appunto, oppure, forse, lo zabajone tiepido, sapiente cura per il rinvigorimento fisico del conte, spesso impegnato in contesti … molto galanti.
Certo, Cavour era un amatore ed io ammiro molto questo suo amare, ma anche volersi bene, cioè, voler bene a sé stesso.
Mi piace immaginarlo seduto con il gelato da Pepino, in Piazza Carignano oppure al Cambio, troppo elegante per me, ma vuole la leggenda che mio padre ci fosse stato, ospite di un suo capo, in un’epoca in cui si poteva, evidentemente, spendere senza freni.
Mi piace anche Fiorio in via Po, mi piacciono le intime salette interne ma mi piace anche pensarlo citato dal buon Carlo Alberto di Carignano, Re di Sardegna, che sembra usasse dire Quest-ce-qu’on-dit au Café Fiorio? (o qualcosa di simile), perché Torino è anche la città del Risorgimento, dai prodromi di Pietro Micca fino all’Unità del ’61.
E ancora, è la città del Cuore di de Amicis, che si svolgeva su via Dora Grossa, detta così fino alla morte di Garibaldi, di cui oggi porta il nome. Dora Grossa, perché lì c’erano i navigli, quelli torinesi, si intende. È la città di Don Bosco o, come dice mio padre, del “suo amico” Don Bosco, sepolto sotto la statua dorata che orna la cupola di Maria Ausiliatrice.
È infine la città della Sindone, quel lino misterioso che avvolse il corpo di Cristo durante la Resurrezione.
Sento che il sonno mi avvolge. Guardo ancora una volta il largo sotto casa. È vuoto, come sempre di notte. In lontananza Piazza Statuto, sempre illuminata e, sullo sfondo, la Collina.
Mi piace questa stanza. Sento che mi rappresenta.
E, in fondo, tranne rarissime occasioni, l’ho usata sempre e solo io, di giorno e, spesso, anche di notte, per godervi della solitudine e del silenzio ma, allo stesso tempo, per sentirmi incuneato, in qualche modo, in quel tessuto urbano rigidamente ortogonale che solo ora, a distanza di quasi un decennio, comincio a comprendere.
(scritto il 26 febbraio 2014)
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