“Io non saprei proprio dire ch’io mi sia”, diceva, rassegnato, il pirandelliano Mattia Pascal, al termine del suo paradossale racconto.
Stamattina, accompagnando mia figlia alla scuola materna, ho avuto non poche difficoltà a causa del rifiuto di lei di entrare. Provando a ragionare con lei – perché nonostante abbiano tre anni, i bambini sono sempre estremamente ricettivi e, a modo loro, profondamente logici – ho scoperto che il “problema” era nel fatto che qualcuno la aveva chiamata “piccola”. Ho pensato a qualche monello della classe un po’ bulletto. Poi, invece, ho letto su un appendipanni il nome di un’altra Irene, un’omonima di mia figlia e, come si dice, ho fatto “due più due”. Ne ho parlato con la maestra, ed ho scoperto che era stata proprio lei, ingenuamente, a chiamare le due bimbe “Irene grande” e “Irene piccola”, senza cattiveria, evidentemente, ma solo per distinguerle.
Mi è tornata alla mente quindi, e per l’ennesima volta, la questione già spesso dibattuta della nostra identità, del modo in cui creiamo – in termini di marketing – un “personal branding” di noi stessi.
Il mio pensiero va, ad esempio, all’attore “Pier Luigi Modesti” mio omonimo che non sta che in quarta o quinta pagina, facendo una ricerca per nome e cognome su Google. Mi dispiace sinceramente perché è bastato un blogger estemporaneo come me a scalzarlo da quel trampolino che con il lavoro di anni gli sarebbe spettato.
Cosa siamo? Un codice fiscale? Un nome indicizzato da un motore di ricerca? Un profilo Facebook?
Pedine di un sistema globale, credo, ma non di un complotto, come sostengono alcuni. In fondo, è facile gridare al complotto quando non riusciamo a vedere “en ansamble” tutto quanto abbiamo intorno a noi e, senza dubbio, la nostra sfera di influenza, anche con gli strumenti mediatici più senzazionali, è pur sempre molto limitata, come si vede analizzando la redditività di una campagna di internet marketing basata esclusivamente sul personal branding rispetto a quella basata su un prodotto o servizio.
Insomma, molto difficile farsi strada da adulti e con la competenza o, per lo meno, la cognizione di quali siano gli strumenti promozionali ad impatto maggiore. Figuriamoci per un bimbo che, a stento, ha imparato il proprio nome.
La verità è che la nostra è, per forza di cose, una società “impersonale” e sta a noi personalizzarla con i nostri potenziali “contenuti originali”.