
George Becali, president of PNG-CD and owner of the Liga I soccer club Steaua Bucharest, in Iasi. (Photo credit: Wikipedia)
Gli avvenimenti economici che hanno caratterizzato a livello globale stanno comportando per la Romania una situazione non brillante.
Non è tanto la realtà della crisi a farsi sentire, quanto piuttosto il clima generale di sfiducia. Si tratta di sfiducia nei confronti delle istituzioni, del governo, della politica, dei poteri finanziari.
Purtroppo, la Romania è stata gravemente malata di “becalismo”. Chi conosce l’uomo d’affari Gigi Becali sa di cosa sto parlando.
Becali è un self made man molto particolare: a quanto si dice, lui, di mestiere guardagregge, di origine macedone (aromeno), mentre pascolava le pecore alla periferia della capitale, circa vent’anni fa, a cavallo della rivoluzione, è venuto a sapere di poter rilevare, complice il cambiamento generale dovuto al cambiamento socio-politico, a prezzo bassissimo terreni adibiti a pascolo prossimi all’aeroporto di Baneasa, esattamente là dove la città si sarebbe potuta espandere naturalmente negli anni successivi. E così è stato. Sicuramente ci saranno state complicità politiche, ma non sta ora a noi giudicarle.
Il fatto è che Becali è riuscito a costruirsi dal nulla un vero impero immobiliare, basato però, in realtà, sulla speculazione fatta sul momento. Oggi Becali ha una squadra di calcio (la Steaua) e un partito politico (PNG), oltre ad una sontuosa villa nel centro di Bucarest.
Ho inventato il termine “becalismo” perchè molta cosiddetta imprenditoria romena degli ultimi anni si è identificata con la speculazione “a colpo di cannone”, quella insomma dei colpi grossi, fatti sfruttando più o meno abilmente le congiunture altalenanti del panorama socio-politico in costante mutamento. Dico più o meno abilmente, perchè come un imprenditore saggio dovrebbe sapere, non è tanto importante “fare i soldi” quanto costruire un sistema autosussistente, quello che si dovrebbe chiamare “impresa”. Chi ha avuto saggezza finanziaria ha anche superato lo scoglio e, oggi, può vantarsi di aver messo su qualcosa che da valore aggiunto all’economia, ma sono molti coloro i quali si sono arenati presto, pur avendo avuto per le mani patrimoni immensi.
Dobbiamo ricordare, infatti, che la Romania, come tutti i Paesi del blocco orientale, non aveva imprenditoria libera, prima del 1989, ragion per cui è stato naturale che le proprietà dello stato siano passate progressivamente in mano a chi ha voluto e potuto esporsi per acquisirle.
Ancora oggi, viaggiando nella provincia romena, non è raro imbattersi in immensi falansteri semiabbandonati, i vecchi “combinat”, come si diceva e si dice traslitterando il termine sovietico omofono.
Il dramma è che l’abbandono, anche se parziale, di queste strutture ha provocato uno stallo nella produzione con conseguente progressiva atrofia del mercato del lavoro. Questa è una delle ragioni che hanno comportato l’esodo massivo dell’intero ceto operaio verso occidente. Qualcuno ama enfaticamente parlare di “diaspora”.
Le strategie governative attuali sono rattoppi d’urgenza ad un sistema con troppe falle. È difficile accettare, per la popolazione locale, soprattutto per quella della provincia e delle campagne (anch’esse trattate, un tempo, come se fossero state grande stabilimento industriale, soprattutto dopo la collettivizzazione forzata degli anni ’60) l’assenza di opportunità di lavoro.
Quanto alle opportunità di sviluppo economico, molti sono arrivati dall’Occidente e perfino dall’Asia, ma i governi non hanno compreso che, a latere della giusta lotta alla corruzione, occorreva ed occorre un piano di defiscalizzazione degli investimenti, carta che si è rivelata vincente in Irlanda, ad esempio. E invece, ora che il miraggio della manodopera “low cost” si sta rapidamente ridimensionando, sembra venir meno qualsiasi possibile beneficio per le nuove imprese e per gli investimenti, interni ed esteri.
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