Installo latitude e ti dico dove sei


Google 貼牌冰箱(Google Refrigerator)

Google 貼牌冰箱(Google Refrigerator) (Photo credit: Aray Chen)

La comunicazione della nostra posizione personale via GPS è, almeno in Italia, una novità recente, giunta con l’arrivo – invasione degli smartphone.

Pro e contro? La lista è lunghissima, forse un po’ ovvia. Si comincia, chiaramente dal discorso della tracciabilità: possiamo, in qualsiasi momento, essere localizzati. Utilissimo in mare, in alta montagna. Utile per sapere tra quanto arriverà il marito a casa e non rischiare di fargli trovare la pasta scotta o… l’amante nell’armadio!

La verità è che, di usi personali come quelli sopra esposti, non mi preoccupo più di tanto. Io per primo utilizzo latitude di Google quando so che mia moglie è in viaggio, per capire quanto tempo impiegherà ancora prima di arrivare a casa. Qualche amico sostiene, bonariamente, che io la spii, anche se è ben lungi da me farlo. Però si potrebbe eccòme (a patto di averne l’autorizzazione dalla controparte)!

Ribadisco, non è l’aspetto personale che mi sembra interessante, per non dire preoccupante. Il punto vero è che non facciamo che comunicare al mondo intorno a noi una quantità industriale di dati che, fermi restando l’anonimato e la tutela della privacy, sono sicuramente raccolti da gestori di telefonia mobile, motori di ricerca, società di analisi di mercato e tanti, tanti altri soggetti che stanno rivoluzionando il marketing a livello globale, facendo uso di matrici di dati e modelli matematici molto sofisticati.

Se già con una “matrice origine – destinazione” dei flussi di lavoratori e studenti in un ambito provinciale sono riuscito io, quindici anni fa, a produrre la tesina di master in GIS sull’analisi cartografica delle armature urbane e la segmentazione tematica di sottoaree comunali della campagna romana (diciamo che, in soldoni, si poteva vedere molto bene quali aree geografiche andavano bene per il residenziale, quali per il commerciale, quali per l’agricoltura e quali per i servizi), figuriamoci cosa si possa fare oggi con matrici di dati complessissime, incrociabili con una cartografia digitale sempre più dettagliata.

Molte informazioni ci ritornano “gratis” attraverso il Web. Basti pensare alla geolocalizzazione degli esercizi commerciali di Google Maps o a cose più elaborate come l’incredibile “Grande Fratello dell’aria” http://www.flightradar24.com/ o l’utile e davvero innovativo http://www.tripadvisor.com/ che ha saputo creare “di fatto” il più accreditato social network mondiale del turismo (avete visto quanti ristoranti hanno già l’inconfondibile gufetto occhialuto sulle loro vetrine?).

Però, mi viene da pensare anche agli usi meno ortodossi, non dico necessariamente illeciti ma, diciamo così, “nascosti nei dati”, quelli che un “data miner”, un analista informatico – statistico, può farne assai agevolmente.

La mente mi torna sempre al caso proverbiale di Bernard Liautaud e della Qantas, se non sbaglio: l’analista, padre del noto prodotto Business Objects (oggi, uno dei tanti moduli di SAP), riuscì a cambiare completamente le proiezioni economico finanziare della compagnia australiana solo dimezzando il numero delle olive nel catering. Altri tempi, se pensiamo alle sparate attuali di Ryanair, certo, ma sicuramente dà molto da pensare. Ed era, forse, il 1995, o giù di lì: insomma, ancora estremamente lontani dal cloud….

Arriveremo a Matrix?

L’amore per i libri


e-Book readers - Samsung Forum 2010

e-Book readers – Samsung Forum 2010 (Photo credit: ManoelNetto)

Stamattina, seduto sulla poltroncina di fronte alla biblioteca, ho realizzato che uno degli aspetti che accomunano maggiormente me e mia moglie è l’amore per i libri.
Ritengo di dover precisare: per i libri, non per la lettura, dato che la cosa più sorprendente è che, a fronte della straordinaria curiosità che ci spinge ad acquistarne sempre, non riusciamo quasi mai a raggiungere l’obbiettivo di completarne sistematicamente la lettura.
Un mezzo migliaio, non di più, questo il numero di libri che abbiamo comprato negli anni e, di questi, ne avremo letti probabilmente molto meno della metà.
A volte gli interessi ci accomunano e i libri sono divorati o – comunque – amati da entrambi, a volte riguardano temi drammaticamente lontani, talvolta palesemente discordanti.
Si va da Nietsche a Topolino, dalla Bibbia alla Nouvelle Cuisine. Un patrimonio variegato e composito. Ma si tratta veramente di un patrimonio?
L’avvento della tecnologia degli schermi ad inchiostro elettronico, responsabile della diffusione (in verità non ancora capillare in Italia, ma a quanto pare davvero straordinaria negli Stati Uniti) degli e-book sta iniziando a cambiare il nostro modo di interfacciarci con una biblioteca.
Anche io, nel piccolo, posso già dire di avere sull’e-book reader più titoli che non nella mia biblioteca cartacea. Oltre mille titoli, tra acquisti, prestiti (cioè copie), e scarichi (cerco di non intaccare troppo i diritti d’autore e uso, quando possibile, piattaforme legate a progetti aperti, come http://www.liberliber.org)
In fondo, non è questo il punto.
Mi domaando, piuttosto, cosa comporterà questo passaggio al digitale. Fin d’ora, posso dire con assoluta certezza che il fascino dello scaffale pieno di dorsi variopinti non è paragonabile a qualsivoglia elenco digitale, per quanto (e non è ancora del tutto così) le operazioni di ricerca e fruizione di libri o parti di essi saranno, grazie alla tecnologia, molto ottimizzate.
Fascino della carta stampata? Probabilmente sì.
Fra l’altro, insieme alla riduzione di stampati, diminuiranno anche le librerie e le biblioteche, sostituite da sistemi informatizzati (Amazon.com la farà da padrone, ma anche i non allineati sul web avranno il loro successo). Sparirà però la dimensione sociale.
Tentativi come Anobii.com, di creare un social network sul mondo dei libri, non hanno, per ora, avuto il successo immaginato.
In ogni caso, se già sostituire la società con questa second life sui social network è e sarà sempre, per il mio modo di pensare, un abuso, ancor più estremo è il giudizio sull’ambito culturale, di cui il libro costituisce, credo, la colonna portante, soprattutto in un mondo, come quello di oggi, ove molte, troppe, sono le parole lanciate in aria con grande leggerezza e pochissime le perle di saggezza degne d’essere ricordate.
Segno, questo, che abbiamo virato definitivamente verso una cultura scritta (processo iniziato da molto tempo e oggi più che mai irreversibile). Ma scrivere non significa solo tradurre in segni le parole, significa dar loro stabilità e definitivarne il senso.
Questo è il limite dei social network che ci hanno invaso e hanno sancito la sconfitta dei contenuti di fronte alle chiacchiere.

Apologo (epilogo) del consumismo


English: Nokia N8

English: Nokia N8 (Photo credit: Wikipedia)

“Hai dell’oro vecchio che non usi più? Vieni da […] e cambialo con un nuovissimo smartphone!”
Sembra veramente assurdo, ma questo è pressappoco quanto le mie orecchie hanno potuto ascoltare da una radio privata, mentre stavo in spiaggia in una domenica di metà agosto (ieri, per l’appunto).
Ecco, insomma, siamo arrivati a questo punto. Signori, qui la questione è complessa e molto: non è soltanto che siamo vittime del consumismo e del suo “braccio armato”, il marketing. No, qui c’è dell’altro.
C’è il fatto che non abbiamo ancora compreso che esistono due categorie di spese (meglio, di costi), quelle per gli investimenti e quelle per il piacere. Ora, sebbene lo smartphone sia sicuramente utile e riunisca in sé molti oggetti che prima usavamo quotidianamente, come la radio, la macchina fotografica, il navigatore, il walkman, il giornale e, chiaramente, il telefono, sicuramente, in un periodo di crisi, se ne può fare a meno.
Una reclame che ci induce a scambiare un bene di rifugio con un oggetto non necessario è avvilente e, soprattutto, preoccupante.
Consumismo o non consumismo, un bene di rifugio si scambia solo con qualcosa che veramente ci manca (il cibo, avrei detto in altri tempi).
Mi viene in mente, a questo proposito, la storia incredibile di Aladino, uno dei fantastici racconti raccolti nelle Mille e una notte. Il giovanotto cinese (e non arabo) Aladino è truffato da un mago africano, ma grazie alla sua scaltrezza riesce a ottenere da un genio (una sorta di demone mediorientale), domiciliato nella ben nota lampada, numerosi preziosi che scambia prima con i beni di sostentamento essenziali e poi usa addirittura come dote per potersi permettere il matrimonio con la principessa.
Interessante la storiella, vero?
Sono passati oltre mille anni e continuiamo a lasciarci abbindolare dai maghi del marketing e siamo riusciti addirittura a trasformare Aladino o, per lo meno, a non apprezzarne i preziosi insegnamenti che ci ha dato sul piano dell’economia quotidiana.

 

Presente e futuro dei social network


Detail showing the illumination added after pr...

Detail showing the illumination added after printing. (Photo credit: Wikipedia)

Se dovessi – o volessi – riscrivere il titolo che ho appena delineato, dovrei forse dire qualcosa tipo “ma i social network hanno futuro?”. Articolando oltre, la domanda di base che mi pongo a distanza di un lustro dall’alba dell’internet sociale è se il web 2.0 o 3.0 sia una realtà culturalmente positiva ovvero ci stiamo avviando ad un web spazzatura, un po’ come quelle pubblicità in cassetta postale non gradite. Insomma, nella vita reale, scriviamo sulla buca delle lettere “questo condominio non gradisce pubblicità in cassetta”, nel web “1.0”, quello dell’email, per intenderci, abbiamo inventato potenti strumenti antispam che filtrano (con poche falle) tutto ciò che entra.

Ora, con il web sociale, finita l’era del “siamo tutti amici di tutti” del basico Facebook o degli “open networkers” delle reti più evolute, sono sempre più propenso ad immaginare l’avvento di strumenti di nuova generazione atti a limitare e salvaguardare ciò che ci viene dalle connessioni.

Quando, quindici anni fa, chat ancestrali come IRC e ICQ ci insegnarono che internet può metterci in contatto diretto, immaginavamo stessimo parlando di – passatemela – un C2C, non un B2C come, invece, oggi è evidente.

C’è stata, invero, anche una fase in cui “semiaddetti ai lavori”, come me, hanno pensato che il B2B potesse essere un’altro sbocco naturale. Poi ci siamo accorti che, alla fine, tutto sfociava in evitabilmente in esperienze di MLM (multilevel marketing) quando non esclusivamente speculative.

Insomma, più passa il tempo, più pavento un internet che dalla comunicazione sociale passi alla “truffa sociale” e, questo, non mi va molto giù.

Non mi va giù affatto, direi. Non mi va giù perchè stiamo uccidendo le possibilità di internet come strumento e, a fronte di una sempre più attaccata e depauperata esperienza “open” come Wikipedia, ci stiamo riempiendo di spam ad elevato tasso di convertibilità in termini economici (la conversione può essere diretta, come nel caso degli acquisti online, o indiretta nel caso ormai frequentissimo della distribuzione ai limiti della legalità dei nostri dati personali con evidente secondo fine di lucro). Uno spam, questo, costituito dagli eredi naturali dei volantini dei supermercati.

Se Gutenberg sapesse che la stampa, quella sua straordinaria invenzione datata 1455, sarebbe stata destinata ai volantini pubblicitari, cosa avrebbe pensato? Si sarebbe prodigato a stampare la sua Bibbia?

Analogamente, il gruppo del CERN che nel 1991 inventò il World Wide Web, che direbbe – che dirà – vedendo ormai transitare solo spazzatura sui protocolli di rete rivoluzionati al solo nobile scopo di informare e connettere?

L’auto più adatta per un manager


Mercedes S-Class with AMG-Package

Mercedes S-Class with AMG-Package (Photo credit: Wikipedia)

Leggendo nei gruppi LinkedIn, ho trovato oggi un post molto curioso: un sales manager chiedeva quale fosse il modello di automobile più adeguato alla sua posizione.

La conversazione era in romeno e rivolta al pubblico del gruppo Romanian Managers, ragion per cui i vari commentatori hanno proposto tutta una serie di veicoli Made in Romania o, almeno, distributed in Romania… Si va, in sostanza, dalla familiare Dacia fino alla più professionale Volkswagen.

Il punto, non è però quale sia il modello giusto. Una ragazza, saggiamente, rispondeva: “dipende da quello che vuoi ottenere”. Ed in effetti, un sales manager o anche executive è drammaticamente legato al suo “parco clienti”.

Insomma, ci sono professioni che ti obbligano ad assumere un determinato “status”. Non è possibile per un manager andare in sandali, a meno che non si tratti di situazioni tipo “venerdì casual”.

Ricordo, a questo proposito, un cliente presso cui ho lavorato anni fa, ove tutti i manager erano obbligati a vestirsi in modo il più possibile informale, ma esclusivamente di venerdì (gli altri giorni abito e cravatta d’obbligo). Ricordo che spuntavano improbabili borchie, bracciali chiodati, giacche da harleysta e chi più ne ha più ne metta.

Contrario, per principio, a questa prassi tanto vuota di significato, ho apprezzato molto l’ultimo commento al post della macchina dove un tale, apparentemente più anziano e navigato dell’autore della domanda, rispondeva “Hai letto Shekespeare – Tanto rumore per nulla? Fregatene della macchina, se proprio è un problema quella che hai, vacci in taxi”.

Niente di più vicino al mio modo di pensare.

Paradossalmente, anche volendo inquadrare il problema in termini prettamente economici, per un manager “spesato” il taxi è più conveniente, così come lo sono, a livello più generale e per distanze maggiori, treni e aerei. Per non parlare della dubbia utilità dell’andare in giro in macchina, visti il traffico e i costi di autostrade, parcheggi e carburanti.

L’unico vero motivo, quindi, per cui un manager dovrebbe avere il “macchinone” è lo status symbol: davvero non ce ne sono altri e, a questo punto, inutile avere la macchina economica e risparmiosa o magari il grosso suv. Tanto vale quella vistosa, quella che capisci subito che il tipo è un manager affidabile.

Ma per quanto, ancora, andremo dietro agli status symbol? Per quanto, ancora, ci lasceremo abbagliare dalle apparenze senza cercare di indagare l’essenza di chi ci sta intorno?

Consideriamo di essere liberi e, invece, non facciamo che lasciarci costringere dalle mode del momento, costruite a tavolino da marketer esperti  nell’esercitare su di noi un controllo invadente attraverso il piccolo schermo e, sempre più spesso, attraverso il web.

Kafka, la vita moderna e i social network


Franz Kafka

Franz Kafka (Photo credit: Three Legged Bird)

La nostra vita è fatta di episodi che scatenano nella mente pensieri a volte un po’ strani.

Ieri, ad esempio, ho comprato, durante una passeggiata in centro, un palloncino a mia figlia. Si trattava di una coccinella (mia figlia è stata evidentemente attratta dal colore rosso acceso spezzato dai puntini neri).

Di sera, restando solo in casa, mi sono accorto che l’innocuo palloncino era volato e stazionava sulla volta del soffitto della cameretta.

Mi è venuta subito in mente l’immagine kafkiana dell’uomo che si traforma in insetto (la coccinella, nella penombra, non era più molto attraente e, anzi, si delineavano più che altro le nere zampette dell’enorme insetto sul cupo turchese dell’intonaco).

Che immagine assurda. Che situazione assurda. Vittima di un palloncino colorato che, nel buio della sera, diventa un mostro.

Questo episodio mi ha dato molto da pensare. Ho visto come Kafka, il cui genetliaco è stato ricordato solo pochi giorni fa, non abbia poi immaginato uno scenario così lontano dalla realtà dei nostri giorni. Anzi, come ormai sempre più spesso accade, è una realtà che supera la fantasia e – palloncini a parte –  ci troviamo sovente catapultati in situazioni grottesche.

Come uscirne? Forse – almeno questa è la mia impressione od opinione che dir si voglia – dovremmo seguire tutti il paradigma del “take it easy”. Preoccuparci di meno, insomma. Vivere, più che altro, nella consapevolezza che

1. siamo respnsabili di ciò che facciamo e quindi di ciò che siamo

2. non possiamo cambiare da soli tutto quanto ci circonda

Non credo sia un “gettare la spugna”. Piuttosto, lo vedo come un’acquisita consapevolezza dei limiti e delle potenzialità del nostro essere.

Nella vita quotidiana, come nel lavoro e nel business, questa consapevolezza non sarà forse troppo positiva, ma eviterà di creare “mostri” nei nostri cieli (o soffitti che siano).

Chiudo con un pensiero alla solitudine, perché se non fossi stato solo, ieri sera, tutti quei pensieri sulla Metamorfosi non mi avrebbero toccato: siamo una generazione di solitari e la socialità del web non sopperisce ancora alla grande necessità di vivere comunitariamente. Una necessità, questa, che come esseri umani abbiamo sempre avuto e che, nella società pre-industriale era superata grazie alla presenza di contesti familiari che completavano l’individuo.

Oggi, invece, bandite le famiglie e le altre forme più o meno evolute di aggreganti sociali, viviamo tra vite reali falsamente autosufficienti e una socialità (o società) virtuale ancora effimera e priva di quegli elementi, o valori, che, prima, completavano il quadro delle nostre esistenze.

 

 

Vittime della tecnologia


Recife - The frigate Constituição arrives at t...

Recife – The frigate Constituição arrives at the Port of Recife, transporting wreckage of the Air France Airbus A330 that was involved in an accident on 31 May 2009. (Photo credit: Wikipedia)

Durante la mia pausa, seduto a leggere La Stampa, mi è caduto l’occhio su un trafiletto in cui si ricorda la tragedia del volo AF447, avvenuta nel 2009. La storia è quella di un aereo di linea, lo ricorderete, caduto in mezzo all’Atlantico a causa del maltempo.

Oggi si è aggiunta l’indiscrezione, evidentemente proveniente dall’esame ulteriore delle scatole nere, che oltre al difetto del “Tubo di Pilot”, causa scatenante del disastro, ci fu anche l’assenteismo del comandante, “impegnato altrove”, forse con l’amante come Schettino – riporta il quotidiano.

L’aereo sarebbe rimasto in gestione al terzo pilota, trentaduenne ed inesperto che, in preda al panico, avrebbe causato uno stallo. Il comandante, al suo rientro, avrebbe trovato una situazione ingestibile e l’impatto con l’acqua sarebbe quindi stato inevitabile.

Lungi, ora, da ogni moralismo – e chi mi conosce sa bene che è così – ciò che mi impressiona in tutta questa storia è che siamo schiavi e vittime della tecnologia molto oltre la nostra immaginazione.

Quello che, infatti, non ho specificato prima, è il fatto che l’aereo era in volo col pilota automatico e il rientro alla modalità manuale era stato causato da un forte temporale.

Insomma, finché si va in automatico, tutto è gestito e gestibile. Nel momento in cui mancano le condizioni, crolliamo.

Da una parte siamo, probabilmente, sfiduciati per formazione e ormai ci siamo convinti, come dire, che senza macchine non possiamo più respirare. Dall’altra, effettivamente, gestiamo situazioni in cui l’ausilio del computer è talmente grande da risultare necessario.

Solo un paio di giorni fa, mi sono trovato in una situazione abbastanza grottesca, per i tempi che corrono: di fronte all’offerta di un primario operatore di telefonia mobile italiano per un collegamento internet, mi sono sentito rispondere chela rete 3G non è disponibile nel comune di mio interesse.  Naturalmente non posso far istallare una ADSL in un appartamento in affitto ad uso transitorio. Anche gli altri operatori hanno lo stesso problema. E dire che si tratta di una zona turistica, sul lago di Como.

Morale? NIENTE INTERNET. Come fare?

Strano a dirsi, ma, almeno a me, l’assenza di internet pesa più che non quella di altre cose che siamo portati a considerare essenziali.

Ciò è vero perché internet incarna e sviluppa le potenzialità comunicative del nostro secolo.

Non sono convinto che possiamo tornare sui nostri passi e fare a meno della tecnologia e, per quanto possiamo rinunciare ai voli intercontinentali, ai viaggi frequenti in auto o all’alta velocità, saremo sempre più dipendenti dall’uso sociale della rete.

Ma chi siamo?


The Son of Man (Magritte)

The Son of Man (Magritte) (Photo credit: Wikipedia)

Stamattina, il post su Facebook di un amico di vecchia data mi faceva riflettere sull’importanza del nome. L’idea era del tipo “nel silenzio comprendiamo chi siamo”.

Gli rispondo, a mio modo, evocando l’ancestrale importanza del nome di Dio nella cultura degli antichi Ebrei e di come la vocalizzazione del trigramma JHW (ciò che appunto definiva una volta per tutte il nome di Dio) era stata seppellita definitivamente insieme con i sacerdoti sterminati ed il tempio distrutto da Tito nel 70.

Aggiungo anche la nota letteraria, ricordando Mattia Pascal, il “Fu” pirandelliano, l’uomo senza identità.

Passano pochi minuti e scopro, nella mia casella email, una allarmante richiesta di aiuto economico da parte di un altro caro amico di vecchia data.

Mi chiede – in inglese – di mandargli 2500€ con la Western Union in quanto è stato derubato di telefono e carte di credito e non può saldare un albergo a Madrid. Sospetto immediatamente il furto d’identità e lo avviso, via Skype, di quanto ho ricevuto.

Al malcapitato, in effetti, è stata usurpata la casella email, nel senso che qualcuno se ne è appropriato, ne ha modificato la password, ha rubato i contatti e cancellato tutti i messaggi. Con non poca fatica (il provider era effettivamente oltre manica) è riuscito a sbloccare la situazione, ma intanto la perdita c’era stata.

Strano che due eventi così diversi e lontani nel loro significato intrinseco originario siano rapportabili ad un’unica considerazione su chi siamo, cosa siamo, come internet ci sta cambiando e quanto la nostra identità virtuale si sovrapponga a quella reale.

Il furto d’identità informatico non è esattamente una cancellazione anagrafica come quella del Fu Mattia Pascal, è più banalmente una truffa bell’e buona. Qualcuno fa phishing, va a pesca, basandosi sulla nostra buona fede e sui non sempre inattaccabili firewall che dovrebbero salvarci.

Fatto sta che viene da pensare che il nostro amico, che stamane ci invitava a riflettere sull’essenza del nome, ha ancora più ragione di quanta non immagini perché, in fondo, non lo sappiamo più davvero, schiacciati tra un mondo di ideali ed ideologie passati e non più accettabili e un mondo nuovo, fondato sul web dove ancora nulla è chiaro, neppure forse le direzioni principali.

 

Writing in english


Italian Language Workshop

Italian Language Workshop (Photo credit: Context Travel)

Il limite, a livello di diffusione, dello scrivere un blog in una sola lingua mi sembra sempre più evidente. La domanda è se e perché occorra “internazionalizzarsi” e adottare l’inglese come lingua target.

A prescindere dalle già molte contaminazioni linguistiche (vedi “target” alla riga sopra), secondo me il punto di fondo è definire la tipologia di lettore “a priori”. A chi ci indirizziamo, quando scriviamo?

Se il pubblico è globable, non possaimo non scrivere in inglese. Se vogliamo raggiungere “i nostri”, usiamo la lingua del posto.

Mentre scrivo, mi sembra di star facendo considerazioni terribilmente banali. Di fatto, però, non lo sono. Quello che il web ci sta insegnando è che il contenuto è fondamentale e la lingua è un attributo essenziale del contenuto: non è forma, come potremmo immaginare, con un’analisi superficiale.

La lingua italiana, articolata e bellissima, straordinariamente ricca e variegata in secoli di meravigliosa sedimentazione antropologica e cultuale, non è tuttavia di grande impatto in quanto concerne la ricerca nei search engine e sui social network.

Cosa stiamo facendo? Perché scriviamo? Domande difficili per chi, come me, non vende “esattamente” un prodotto o, meglio ancora, un infoprodotto online. Io, ad esempio, scrivo essenzialmente per il piacere intrinseco di raccontare.

In questo frangente, mi domando, dunque, se non valga la pena “anglicizzare” per “globalizzare” (leggi massimizzare) il mio pubblico potenziale – in fondo è bello essere letti e, magari, apprezzati. Non darò una risposta immediata a questa domanda. Presumibilmente, nel prossimo futuro, mi adopererò a scrivere, di tanto in tanto, in una lingua meno materna ma, probabilmente, più apprezzabile nel contesto di internet.