Champagne Drappier: histoire, terroir et passion


Ad una magistrale lezione sullo Champagne ricordo molto bene quando ci fu spiegato quali ragioni fanno della bolla d’Oltralpe un vino inarrivabile e, semmai, il riferimento assoluto per chi fa metodo classico in tutto il mondo.

Tali ragioni sono la storia dello Champagne, il suo terroir e la passione dei vigneron.

Nella nostra visita con degustazione ad una delle maison di riferimento dell’Aube, ho avuto il piacere di  sperimentare quanto questi fattori si fondano nel bicchiere per donare anima e classe allo Champagne, tanto da rendere vani e fuori luogo paragoni con le “altre” bollicine.

Sto parlando della maison Drappier, con sede nel piccolo villaggio di Urville: si trova nel dipartimento dell’Aube, a pochi chilometri da Bar-sur-Aube.

Ci accoglie l’attuale proprietario Michel Drappier: seppur distinto e competente è sempre sorridente e di una simpatia contagiosa. Ha voglia di scherzare, riuscendo a far sentire tutti i visitatori a loro agio.

Michel ci accompagna a visitare le cantine storiche della maison lungo un bellissimo percorso, ben consapevole della varietà dei visitatori presenti e della propensione di alcuni a ritenere la vista una specie di tour dei sotterranei.

Ho detto maison perché, come prevede la legge Francese, Drappier ha una buona percentuale di uve da vigne non di proprietà (circa 50 ha di proprietà e 40 ha di viticoltori conferitori), ma stiamo parlando di una famiglia di vigneron molto importante, con una lunga storia di vinificazione iniziata nei primi anni del 1800 fino all’attuale generazione con Michel ed i suoi tre figli che ne rappresentano ben l’ottava.

La storia: le cantine, che sono ai piani inferiori dell’abitazione della famiglia Drappier, furono fatte costruire nel 1152 da Bernardo Di Chiaravalle che, arrivato da Digione, fondò l’abbazia di Clairvauxh e utilizzò queste cantine per la conservazione del vino: a quel tempo si trattava di un vino rosso e fermo. Il cosiddetto Vin da Bar, già molto apprezzato dal re di Francia, viaggiava verso Parigi su bastimenti che scendevano lungo il corso dell’Aube e della Senna.

Il terroir: siamo nel territorio di Urville, particolarmente vocato al Pinot Nero che, guarda caso, fu introdotto proprio dai cistercensi dalla Borgogna. Qui il clima è fresco, anche se leggermente più mite del nord della Champagne; le colline molto morbide ed i terreni composti di marne e calcari Kimmeridgiani hanno molto in comune con quelli del nord delle Borgogna (Chablis) e donano al Pinot nero un fruttata croccantezza e morbidezza. Il Pinot nero è il vitigno principale di questa regione ed è anche quello a cui la famiglia Drappier è rimasta fedele: il Carte D’Or Brut, (con minimo l’80% di pinot nero) è espressione autentica dello stile Drappier.

Michel ci spiega in un buon Inglese e con parole semplici come intendono fare Champagne, con alcune scelte di produzione davvero uniche e interessanti: da ciò che sto per raccontarvi emerge tutta sua grande passione, che, non dimentichiamo, è il terzo e non meno importante fattore per fare un grande Champagne!

Drappier si definisce “organic oriented” e la maison si sta convertendo per avere la certificazione: produce vini non filtrati e a basso contenuto di solfiti (fino ad arrivare all’estremo brut nature sans soufre).

Per tenere basso il quantitativo dei solfiti, in tutte le fasi delle vinificazione, si cerca di minimizzare il contatto con l’ossigeno, a partire dalla macchine pressatrici che fanno cadere il mosto nelle cisterne solo per gravità, alla scelta dei legni per l’invecchiamento dei vini, al fatto di non cambiare mai il contenitore in vetro per la seconda fermentazione, anche per i grandi formati di bottiglie.

Drappier – Carte d’Or Melchisedech

 

Quella che vediamo è la più grande bottiglia di Champagne mai prodotta: una Melchisedec equivalente a 40 bottiglie per 30 litri

 

 

 

 

 

Oggi la loro produzione è costituita da un 70% di Pinot Noir, 15% di Chardonnay, 13% di Munier ed un 2% di vecchie varietà che sono quasi totalmente scomparse dalla Champagne: Arbane, Petit Meslier, and Blanc Vrai una varietà che si trova anche in Borgogna ed è comunemente chiamata Pinot Blanc e che qui si usa chiamare Blanc Vrai perchè significa “veramente bianco”, infatti sia la buccia che polpa sono decisamente bianche.

Drappier è uno dei pochissimi produttori ad utilizzare tutte e sette le varietà per la sua produzione, in particolare il blanc de blancs Quattuor, vuole valorizzare questi vitigni dimenticati.

Altra caratteristica unica: Drappier usa un proprio lievitino biologico, registrato. E’ molto difficile che si possa registrare il brevetto di qualcosa di vivente come lo sono i lieviti: possiamo considerare questi lieviti come una firma dello champagne Drappier.

Il riposo sui lieviti va da un minimo di due o tre anni per il Carte d’Or fino a nove anni per il Grande Sendrée (oggi stiamo bevendo il 2008).

Il dosaggio finale è la liqueur d’expedition fatto di vecchio vino di champagne e zucchero di canna biologico dai Caraibi (Martinica). Chiaramente nel brut nature non verrà aggiunto lo zucchero, per il Carte d’Or si aggiungono 5-6 grammi di zucchero, mentre per il più dolce demi-sec si arriva a 35 gl.

I russi, molto tempo fa, erano degli ottimi consumatori di demi-sec, oggi non più: il mercato richiede quasi esclusivamente Champagne secco.

OVUM Taransaud

 

Nella foto a fianco l’unica grande botte a forma di uovo: ce ne sono solo due in tutta la Champagne, ma Drappier è stato il primo ad averla. La forma è considerata quella ideale per la maturazione del vino poiché al suo interno si generano delle correnti, dei moti convettivi che conferiranno particolare eleganza al vino.

Il vino sarà differente se matura nella botte a uovo, o nella botte ovoidale verticale o orizzontale.

Nella foto sottostante possiamo notare delle nuove botti il cui legno arriva dalla “Forêt d’Orient” che, in Francia, sono uniche: non ci sono altre botti fatte con questo legno. Questa foresta, che apparteneva all’ordine dei templari (un potente ordine di cavalieri) è immensa e si trova non molto lontano, sempre nel dipartimento dall’Aube: Drappier ha avuto la possibilità di utilizzare alberi secolari per ottenere delle botti speciali in cui conservare i vini di riserva.

 

Drappier – Barrel

 

Dobbiamo pensare che Drappier produce ogni anno circa 75 vini diversi e l’anno successivo, tra Febbraio e Maggio, Michel decide le dosi che comporranno la cuvée (il blend).

E’ suo compito assaggiare tutti e 75 i vini, ciascuno anche dieci o venti volte: parliamo quindi di circa 3000-4000 degustazioni, rigorosamente alla cieca, da effettuare alla fine dell’inverno, solo dopo le quali Michel deciderà in autonomia la composizione della cuvée: prima di lui lo ha fatto per anni il padre André e il figlio, prossimo enologo, proseguirà la tradizione di famiglia.

 

L’anno scorso (2016) c’è stata una terribile gelata e Drappier ha perso circa l’80% del raccolto.

Anche quest’anno le cose non sono andate molto meglio: è andato perso circa il 50%-60% del raccolto, sempre a cause di gelate primaverili. Questo spiega l’importanza della gestione e conservazione dei vini di riserva, nonché dello stoccaggio di un gran numero di bottiglie che stanno maturando sui lieviti.

Ci viene poi mostrato qualcosa di veramente unico in Champagne: una botte di legno da Limoges.

Questo legno è molto poroso e permette all’ossigeno di attraversarlo: per questo motivo Drappier lo utilizza per la liqueur d’expedition che è composta da zucchero di canna, che viene sciolto nel vino fermo di Champagne (700 g/l: la quantità massima di saturazione oltre la quale lo zucchero non si scioglierebbe) per produrre un liquido molto dolce e mieloso. Questo liquido viene invecchiato dai 15 ai 20 anni e la si può considerare una vera propria essenza che utilizzata in piccolissime quantità conferirà ricchezza e morbidezza allo Champagne.

Drappier esporta in 98 paesi circa i due terzi della propria produzione. Lo champagne viene venduto spesso in piccole quantità: Drappier definisce la sua infatti una piccola maison. Anche l’Italia è assolutamente un mercato importante per Drappier: i primi paesi importatori sono Belgio, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti.

 

Degustazione Drappier

Ora ci troviamo nel salotto di famiglia, molto elegante ed in stile neo-coloniale, con grandi finestre che danno sulla campagna circostante la proprietà. Ci sono molti altri ospiti ed il rumore di fondo non ci impedisce di goderci la degustazione degli Champagne Drappier eleganti e di territorio: il brut nature, il Carte d’Or, il rosè e il Quattuor.

Michel, che evidentemente ci ha preso in simpatia, si siede con noi per una chiacchierata informale, per sapere chi siamo e da dove nasce questa nostra passione, proponendoci un’ultima degustazione della sua cuvée de prestige Grande Sendrée, che lui stesso ci racconta essere il nome evocativo di un grande incendio divampato ad Urville nel 1838 ed in particolare di un appezzamento di terreno che fu completamente ricoperto di cenere (cendrée in francese significa incenerito): fu poi per un errore di ortografia che divenne Sendrée.

E’ il finale perfetto: la Grande Sandrée è champagne d’autore, in cui ritroviamo fusi magicamente e armoniosamente histoire, terroir et passion.

Michel Drappier & Somms

Chapoutier e l’etichetta per non vedenti!


La bella stagione invita al viaggio e se dentro di te brucia la passione per il Syrah… sarà normale ritrovarsi sull’autostrada francese A7 in direzione Tain – l’Hermitage con tre amici per visitare la maison Chapoutier. Appena entri ti chiedono il nome della prenotazione e ti portano nel vigneto; per scoprire questa vite “solitaria”. Ogni piede di vigna è affiancata da un bastone, ma tra di loro non c’è nessun cavo. La temperatura è torrida, siamo a fine giugno e si ritorna in sede.

Qui inizia la degustazione con 4 vini bianchi, mi servono un Saint-Joseph Blanc “les Granilites” 2015, poi il responsabile posa la bottiglia davanti a me, la prendo in mano e sento la rugosità dell’etichetta… è la scrittura Braille! In quel momento è riaffiorato un ricordo dimenticato, una lattina di birra giapponese che avevo bevuto anni prima , vicino alla linguetta dell’apertura aveva una ventina di “pallini” per informare i non vedenti del suo contenuto…

Piccoli dettagli che vanno oltre l’aspetto enologico di una Regione, perché uniscono Oriente ed Occidente. Speriamo che il Legislatore se ne occupi, prendendo spunto dal Piccolo Principe “L’essenziale è invisibile agli occhi”.

Ai piedi dello Champagne


Vorrei provare a raccontarvi una storia di tanti perché, senza arrivare proprio vicino alle risposte, senza poter trovare la strada corretta, ma passando piuttosto attraverso il tempo cercandovi qualche curiosità.

Tantissimo tempo fa, per l’esattezza nel Mesozoico (se di esattezza si può parlare riferendosi ad un’era geologica di 150 milioni di anni), in una vasta area depressionaria, iniziò la storia di una pianura intervallata da dolci rilievi che avrebbero contribuito un giorno a rendere molto famosa la regione in cui si sarebbero trovati. Mi riferisco a quello che i geologi chiamano bacino sedimentario di Parigi, ou bien Bassin Sédimentaire Parisien.

Circa 3500 metri di sedimenti deposti grazie alla presenza dell’oceano durante la totalità del Mesozoico e al susseguirsi di momenti di trasgressione e di regressione marina durante il Cenozoico, che portarono la presenza del mare o piuttosto di lagune o di bacini chiusi, in forte evaporazione (i cosiddetti laghi salati). Una deposizione a momenti parossistica, in cui i rilievi al contorno si sgretolavano letteralmente, e torrenti impetuosi ne portavano i sedimenti a valle. Gli strati risultanti venivano schiacciati sotto il loro stesso peso e piegati, soprattutto a partire dal Neogene, dalla potente forza creatrice della tettonica Alpina e Pirenaica, una forza talmente possente da sollevare ancora oggi il mondo di centimetri all’anno.

L’era Mesozoica vide la presenza dell’oceano e determinò una deposizione potente anche 600 metri di calcare molto puro, la cui componente terrigena era per lo più apportata dall’erosione dei massicci isolati inglesi e dei vosgi. In seguito per regressione marina dovuta all’isolamento ormai compiuto del bacino Parigino, durante il Cenozoico si deposero sul potente strato calcareo depositi unici, molto fossiliferi, di natura variegata e dipendenti dal momento e dall’ambiente di formazione.

Il risultato è una serie sedimentaria di rocce di origine marina, lacustre, lagunare, fluviale. Dove i sedimenti oltre ad essere di diversa natura hanno diversa forma e composizione: detritica (i pezzi grossi o trovanti), marnosa (sedimenti calcarei e terrigeni di deposizione marina), argillosa (di origine soprattutto lacustre e lagunare) e calcareo gessosa o evaporitica (che come si può intendere dal termine restano come risultato di un’evaporazione spinta).

La porzione Nord Orientale del bacino di sedimentazione fu caratterizzata nel Neogene da prolungate crisi di salinità ed i depositi risultanti furono gli strati gessiferi intercalati a marne e sabbie, dovuti agli ambienti lagunari i del bacino, che oggi affiorano presso Reims.

Qui in seguito a modificazioni dovute alla tettonica e alla dinamica fluviale recente, il paesaggio si presenta composto da pianure, ma soprattutto da valli e colline (o cuestas). Questa porzione di territorio venne scelta nelle epoche più prossime ai nostri tempi come area agricola da adibire alle coltivazioni cerealicole e per l’implantazione della vite, per produrre il vino per le celebrazioni religiose.

Qui fu dove per cento anni Inglesi e Francesi si diederero battaglia aperta, fu dove Giovanna d’Arco condusse Carlo VII ad essere incoronato, fu un’area pressoché dimenticata nel secolo della rivoluzione, fu dove un Dom Pierre fu inviato a gestire l’abbazia di Hautvillers, e dove mise a frutto la sua arte, così vicina alla poesia da profumare con fiori di pesco i suoi esperimenti, già così eccezionali.

I suoi risultati, da considerarsi una scoperta a tutti gli effetti, che cosa sarebbero stati però se non si fossero accompagnati alle caratteristiche geologiche, morfologiche e climatiche del ventre in cui furono concepiti? Sarebbero un nobel nel campo enologico e oggi berremmo un vino effervescente, ma non potremmo del tutto definirlo l’estasiante, chiaro e sinuoso Champagne.

La presenza di terreni calcareo marnosi peculiari di questo terroir e i potenti livelli evaporitici rendono la coltivazione dei cépages principali un po’ meno estrema, le caratteristiche chimiche del gesso e della calcite sono qui indispensabili nei rilasci idrici e termici lenti, e nella regolazione dell’apporto nutritivo alla pianta.

La bellezza e la peculiarità di questo luogo è commovente, come nell’ascolto di un brano al violoncello, ti tocca nelle viscere, te le rimesta letteralmente; poter osservare le cattedrali che la natura ha riserbato nel sotterraneo, ai piedi di quelle piccole piante, creando vuoti e vortici protettivi delle loro profonde ed eleganti radici, e nascondendovi tesori sommersi quasi come a voler regalare i suoi gioielli, riesce per me a svelare molti interrogativi e a convincermi una volta in più che non si tratta solamente di un metodo di vinificazione.

Qui una realtà, la Legrand-Latour, ha fatto della sua cave, denominata La Cave Aux Coquillages, un itinerario di immedesimazioni scenografiche per celebrare al meglio le caratteristiche del loro lavoro e dei loro possedimenti; Monsiour Legrand è un appassionato paleontologo da quando era bambino, forse oggi lo fa anche con la prospettiva di interessare le famiglie con bambini, o solo perché spesso in Francia si fa così. Io dal mio conto penso che siano iniziative lodevoli ed il vedere la propria bambina con il pennellino a caccia di Campanile Giganteum lutetiane nelle viscere di Fleury-la-Riviere, è senza dubbio affascinante, così come poter scendere nel museale sottosuolo di questo luogo e vivere nel suo sacro silenzio.

A Reims, tra le vigne


La Champagne è una regione verdissima, disseminata di piccoli borghi, stretti intorno ad un campanile.

Tutt’intorno, distese infinite di prati, boschi, campi coltivati e, naturalmente, vigne. In realtà, e come è giusto che sia, le vigne non sono proprio dappertutto. Ci sono zone, tuttavia, come la Montagna di Reims, dove i filari proliferano fieri ai margini delle strade asfaltate, tanto da invogliarti a fermare la tua auto, che frettolosamente corre da un produttore all’altro.

Oggi siamo a Jouy-lès-Reims.

Ti fermi, scendi e ti immergi in questo verde grandioso, rotto solo, a tratti, dalle rose in fiore poste in testa a ciascun filare.

I filari sono incredibilmente bassi, quasi a volerci rammentare quanto conti il terreno di queste vigne, il cui calcare assorbe inesorabile quella luce e quel calore di cui necessitano i grappoli per giungere a maturazione, anche qui, a queste latitudini.

Pochi passi su una delle stradine sterrate che attraversano le vigne. Sguardi, i nostri, ammaliati dalla bellezza e dalla perfezione dei Guyot su un verde letto di erba.

Un furgoncino rosso si ferma, scende una persona. Salutiamo. È un uomo anziano, capelli bianchi ed occhi limpidi e celestissimi.

Nel mio modesto francese, gli chiedo delle vigne, dei vitigni. Prontamente ci racconta dello Chardonnay e del Pinot Noir, così simili e delicati. Ce li indica, ci mostra l’allegagione. Poi, stupiti dalle chiome cinerine di un altro vigneto, ci racconta che si tratta del Meunier, che non è pinot, neppure nel nome, tantomeno nel patrimonio genetico. Anzi, è proprio il Meunier a resistere di più, laddove gli altri due sono sempre difficili da allevare.

Gli chiediamo il nome, Bonnet, ci risponde, e aggiunge che non importa il cognome, che ha ottantotto anni e fa vino dagli anni ’50, quando nelle vigne si andava sempre e solo a cavallo.

Alla fine, gli chiedo perché alla sua età stia ancora in vigna, si illumina e dichiara: “Pour la passion !”

In realtà, la sua piccola Maison, la Bonnet Crinque, produce uno Champagne che fa dell’attenzione all’ecosistema uno dei suoi manifesti principali, tanto dall’aver sostituito, ad esempio, i trattamenti contro gli afidi nocivi con l’inseminazione delle vigne con afidi “buoni” che eliminano i primi.

Un appuntamento imminente non ci permette di seguirlo oltre, in cantina. Rimarremo con il ricordo della sua lezione di viticoltura e di umanità.

Speriamo di riuscire ad assaggiare presto quegli champagne, frutto di una bella tradizione familiare, portata avanti oggi dal figlio Arnold.

Il potere in un bicchiere


Non credevo che un bicchiere potesse far risplendere a tal punto un colore, eppure quel calice si era illuminato, ed il mondo attraverso di esso. Non si trattava solamente di un colore, era un emozione che lenta si sprigionava intorno a quella ampolla, si proiettava solitaria e spregiudicata, stagliandosi ad un livello nettamente superiore.

Il mio atteggiamento era diventato istantaneamente di deferenza, quasi come in chiesa davanti ad un oggetto sacro: non osavo toccarlo, figuriamoci berlo. Ma quello era pur sempre un vino: era il succo di un frutto, di una pianta, della terra, si trattava di un prodotto agricolo.

Scelsi di impadronirmene, non sarebbe importato il giudizio che avrei dovuto produrre, ne se ne sarei stata in grado, quello doveva essere senza dubbio un vino eccezionale, e cosa altrimenti? provai lo stesso ad avvicinare il bicchiere al volto.

Tralasciando tutti i dubbi che assalirono la mia mente riguardo alle mie competenze di degustatrice, mi fissai sul fatto che mi fidavo di lui, mi avrebbe attirato a se, confermando la capacità che spesso vorrei possedere di riconoscere le essenze uniche, la bellezza semplice.

E con stupore, al naso, eccolo, si presentava deciso ma indubbiamente semplice. Profumava di sentimenti: tranquillità, dolcezza, paternità e di una grande fermezza. Io sono, diceva, con una voce decisamente maschile. Io ho vissuto, ho allietato animi altrove, ho comandato, ho accompagnato.

La viola di un’acqua di colonia, mischiata al gusto del sangue, muschio e miele caramellato, il sentore di tabacco rimasto in una tabacchiera d’argento, che sa di ossidato a sua volta, il cuoio di una sella lucida e secca, la terra umida che sporca gli stivali, il profumo alcoolico di una lozione per la pelle.

Matta, pensai, non può ricordarti la pelle, eppure si, quello era il dolce, fragrante e caldo profumo della pelle di un uomo. Ed un frutto rosso e pieno era il suo bacio, che si espande tenero in bocca, rendendo la lingua vellutata e sprigionando una enorme freschezza.

Si trattava dunque di un vino dall’ego spropositato, sì perché era stato lui che, nonostante la sua parvenza eleganza e sobrietà mi aveva attirato a sé! Era stato lui a parlare di sé. Era stato lui a dirmi:

..io non ho paura di colui che mi assaggia! Al più gli stolti non mi noteranno neppure, con quelle loro papille bruciacchiate, diranno che sono un tipo strano, troppo difficile, scambieranno la mia austerità per mediocrità addirittura, ma la verità e che non ne capiscono niente, e che quando bocche altrui porteranno alle loro orecchie i miei fasti, le mie vittorie, essi mi temeranno, invidieranno la mia forza, la mia lunghezza infinita, la mia naturale eleganza. Essi sono gelosi soprattutto dei miei soldati, che mi vezzeggiano dal momento del loro concepimento, in seno a famiglie a me devote da generazioni. E così dei miei generali: essi si battono come minatori esausti per me! Ma io, io li ripago con grandi decorazioni e fama e prestigio. La frivolezza non mi appartiene, e le donne? Loro ne sono sedotte, e io? Io resto il numero uno, mi allieto di compagni d’arme, solo uomini, s’intende! Parce-que je suis le Pinot Noir, je m’appelle Latricières Chambertin et si tu veux tu viens, mais tu viens derrièr !.

Il Latricieres Chambertin grand cru in questione è di Luis Remy (o forse è più corretto dire M.me Chantal Remy?), vendange 1997; ed è, a mio avviso, un vino dal carattere eccezionale, in grado di parlarti al cuore in maniera diretta e restarti nei pensieri per molto tempo, difficile trovarvi alternative.

Magico Dom Perignon 


Nel mio lungo viaggio alla ricerca dell’emozione, mi imbatto, in una notte di mezza estate, in una lunga teoria di verdi bottiglie. Gli scudetti déco che le ornano raccontano un sogno, trasformatosi in realtà poco meno di cent’anni fa.
A Epernay nacque, nel 1921, la prima cuvée de prestige della storia dello champagne, destinata ad arrivare nelle flûte solo quindici anni più tardi.

Un vino sempre e comunque emblema del lusso, inconfondibile, a partire dalla bottiglia, che riprende, forse, le forme delle settecentesche bottiglie di Hautvillers, le prime adatte a resistere alle pressioni della rifermentazione.

Un nettare delizioso, al di là di qualsiasi possibile preconcetto. Sì, il Dom Perignon è buono: lo è, soprattutto, quando qualche anno invecchia l’etichetta. È allora che si esprime nella sua complessità olfattiva.

Ma la bocca no, la bocca è sapidamente emozionante anche sui millesimi più recenti, regalando al palato persistenze infinite.

Un sogno che disseta senza mai stancare. Un sogno da vivere e rivivere, tanto nell’esperienza di una P2, forse troppo giovane, quanto nel millesimo 1998, ancora così giovanile nella sua raggiunta complessità all’olfatto e al gusto, concludendo il viaggio nello sconvolgente millesimo 1976, dove mai diresti d’essere di fronte ad un vino vecchio di quarant’anni e ancora esuberante.

In Borgogna, alla ricerca dell’emozione


Quando ero ragazzo ed entravo nei supermercati francesi, guardavo stupito gli scaffali e leggevo incantato le sobrie etichette attaccate a quelle bottiglie verdi, tutte miracolosamente uguali. Bourgogne… E mio padre che raccontava come un vero francese, quando va al ristorante, chiede sempre un Bourgogne.

Eppure, curiosità della vita, quando passai per la prima volta dalla Borgogna, ed ero già grande, non ero affatto interessato al vino, quanto piuttosto all’arte.

Poi fu la volta dello Chablis, servitomi al matrimonio di amici francesi, nell’indimenticabile cornice di un castello della valle della Loira. L’abbinamento era, forse, un po’ forzato, dato che lo si accostava al foie gras dell’aperitivo. Fatto sta che mi piacque immensamente (per quanto non ricordo di averlo associato, all’epoca, all’idea della Borgogna).

Poi è seguito lo studio, i master, le degustazioni, i viaggi e, soprattutto, la totalmente trasformata percezione del vino e del suo terroir.

Sia chiaro, ignorante ero e ignorante sono rimasto, soprattutto in un contesto come quello della Borgogna, però sono un ignorante costruttivo, che cerca con costanza e tenacia di sopperire alle tante lacune, che poi, sono tanto culturali quanto emozionali.

Eh sì, perché più di qualsiasi altra area vitata del pianeta, la Borgogna è emozione. Un’emozione immensa che ti fa tornare ragazzo e ti fa battere il cuore, di fronte alla vigna di Richebourg, quasi fosse un primo, adolescenziale bacio: qualcosa che desideri ma non sai cosa aspettarti e sogni donne proibite, proibite come le etichette scarne e inconfondibili della Romanée Conti, belle e irraggiungibili come la più bella della classe.

Il vino di Borgogna è, dopo tutto, pura sensualità. Lo è nella declinazione maschile dei Pommard e degli Chambertin ma lo è soprattutto nella declinazione femminile di tutte le altre denominazioni, dall’eleganza del Musigny, all’esotismo della Romanée, al profumo d’agrumi dello Charlemagne e alla burrosa opulenza del Montrachet.

Che fortuna aver potuto assaggiarli, gustarli e ricordarli come indimenticabili baci di donne che passano nella tua vita per pochi minuti e la stravolgono, ribaltando completamente i tuoi paradigmi.

E come tutte le vere grandi donne, così i grandi cru di Borgogna sono difficili, imperscrutabili, talvolta incomprensibili. Ma proprio come le grandi donne, che non hanno bisogno del trucco, così anche a loro basta la purezza di una sola uva, nelle due declinazioni del Pinot Noir e dello Chardonnay (che poi, dicono gli ampelografi, hanno una genetica molto simile).

Niente trucco, insomma, nessuna personalità baroccamente composta ad arte per piacere, al contrario di altre zone della stessa Francia. I vini, in Borgogna no, se non ti si concedono restano dei miti, come irraggiungibili e algide top model. Poi, improvvisamente, si aprono e ti svelano la loro semplicità, che è disarmante.

Impossibile non innamorarsi.

Sedotto da Romanée-Conti


Ci sono vini che sono emozione, altri che ci lasciano indifferenti o ci deludono. Ma che cosa fa davvero la differenza tra un vino e un altro? Perché un vino ce lo ricordiamo per tutta la vita e non ricordiamo, invece, tutti quegli altri vini, magari buoni ma, tutto sommato, comuni?
La qualità, prima di tutto. Se la qualità non è alta, il ricordo del vino svanirà molto presto, non c’è dubbio. Eppure, c’è dell’altro. La qualità, da sola, non è sufficiente.
Io credo che, tra le motivazioni più importanti, ci sia la situazione in cui avviene la degustazione.
La situazione può essere fisica ma potrebbe anche essere culturale.
Cerco di spiegarmi meglio: il vino costella le situazioni personali che viviamo (il vino di una cena speciale, lo champagne del matrimonio, un ricordo d’infanzia…) ma, per chi il vino lo ama e lo studia, esso è anche indissolubilmente legato a luoghi, denominazioni, cantine, etichette.
Venerdì scorso, mi sono ritrovato nel calice (fortunato mortale!) un Romanée-St-Vivant 2008 del Domain de la Romanée-Conti, una delle etichette che fanno la storia del Pinot Noir della Borgogna.
Ecco, è stata “emozione totale”. Lo è stato per il momento, per la situazione contingente, per la degustazione, per la qualità della bottiglia. E lo è stato, parimenti, per il nome del vino, del produttore, per quell’etichetta borgognona così sobria, con le sue inconfondibili righe di caratteri stampatelli neri e verdi.
Dare, ora, delle note di degustazione mi sembra quasi fuori luogo. In ogni caso, è un vino ampio con un olfatto che dal frutto croccante, ancora percepibile, spazia alle violette appassite, spezie orientali e tanto, troppo altro. In bocca, una freschezza degna di un grande bianco, il tannino è seta, della più raffinata. La persitenza è infinita.
Tutto è, qui, seduzione ed io sono stato irrimediabilmente sedotto.

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Le Domaine des Planes – Roquebrune s/ Argens


Come prima cosa c’è da dire che i Francesi sono davvero bravi a preparare le location, quando si imbocca la stradina privata per arrivare al Domaine ci si immerge in un paesaggio quasi fatato con delle vigne ben tenute con i cartelli che indicano il vitigno e anche i fili d’erba sembrano sistemati a dovere.

Azienda certificata bio con circa 30 ettari vitati dove convivono varietà tipiche francesi come Mourvèdre, Syrah, Grenache, Cabernet Sauvignon, Clairette e Semillon; anche il Rollo ligure e una varietà autoctona che è stata ripresa: il Tibouren (che tra l’altro pare sia geneticamente affine al Rossese di Dolceacqua).

All’assaggio i rosati si prendono la scena e si distinguono per una bellissima freschezza e per i sentori fruttati e floreali delicati, ma intensi. I colori sono di grande effetto, eleganti, dati da un contatto breve e rigoroso con le bucce per rilasciare la giusta quantità di colore e far sì che sia l’acidità a farli brillare alla luce della sala di degustazione accogliente e confortevole. Si esprime molto bene il Tibouren con un bel brio e grande piacevelezza, il Cinsault e il Grenache con il Mourvèdre rendono le cuvée degli altri rosé interessanti dal punto di vista aromatico aumentando i gradi di complessità e intensità.

I bianchi sono giocati sugli aromi, il Sémillon dona al vino aroma e una bella rotondità che, assieme all’acidità, rendono i vini di corpo, piacevoli e di buona beva durante pasti soprattutto a base di pesce.

I rossi sono un po’ in ombra rispetto all’eleganza dei rosati, vengono affinati in botti di rovere da 51 hl per 9-18 mesi per rifinire l’aroma e ingentilire i tannini. La triade Mourvèdre, Syrah, e Cabernet Sauvignon si fondono in varie cuvée aiutati dal Grenache, senza spiccare, rendendo la spezia del Mourvèdre e del Syrah, sfruttando il corpo del Cabernet.

Concludono la batteria della cantina un Vin de Pays des Maures con Moscato d’Alessandria vinificato secco di gran profumo e un rosato giovane di Grenache e Carignan. Per le bollicine vengono presentati un brut di Rolle e Ugni blanc e un rosé di Carignan.

La Costa Azzurra si conferma terra di rosati, un luogo dove questo vino trova la sua patria di elezione e dove è piacevole andare in giro a scoprire eccellenze come questa cantina che dal 2009 colleziona medaglie d’oro e d’argento al Concours Général Agricol di Parigi. Merita una visita il Domaine, ma, soprattutto, meritano un assaggio i vini del Domaine, per capire che cosa sia un rosé ottimamente fatto.