
English: Plopeni Sat, Prahova County, Romania; seen from the road from Lipăneşti Română: Localitatea Plopeni Sat, judeţul Prahova, România, văzută de pe drumul dinspre Lipăneşti (Photo credit: Wikipedia)
Ci sono argomenti di cui oggi si parla troppo e troppo poco allo stesso tempo. Uno di questi è, a mio avviso, il problema delle società post-industriali.
Ebbene, in un’epoca in cui tutto il mondo si schiera e si divide in global e no global, pro e anti USA eccetera, si dimentica molto spesso il problema di società che hanno conosciuto una notevole floridezza economica grazie all’industria. Certo, si trattava di un’industria pesante, spesso votata a fini bellici, difficilmente riconvertibile.
Proprio la scarsa riconvertibilità è stata la causa del crollo economico di alcune regioni palesemente industriali.
E’ bene ricordare che tutto questo non è avvenuto solo in Romania, ma, in molti casi, anche in Italia e in altri paesi occidentali. Poi, nell’Europa dell’Est, potremmo trovare un’infinità di casi dal grottesco al drammatico in relazione con quest’argomento.
Qui, in ogni caso, stiamo parlando della Romania e su questo paese continueremo ad incentrare le nostre riflessioni.
Almeno, questo è il mio intento. Naturalmente, chiunque avesse qualcosa da obiettare, da aggiungere o da commentare, anche se “geograficamente” fuori tema, è ben invitato a farlo!
Voglio richiamare all’attenzione di voi lettori alcuni esempi che ho avuto modo di toccare con mano.
Il primo di questi esempi riguarda una piccola cittadina del distretto della Prahova, circa sessanta chilometri a nord di Bucarest. Superfluo darne il nome. Insomma, fin dall’epoca della Grande Romania, cioè dal tempo in cui c’era la monarchia e i governi erano, per così dire, “amici” della Germania, questa cittadina si era sviluppata intorno ad un centro industriale legato all’approvvigionamento militare.
Una fabbrica di armi, si potrebbe ben dire, credo.
Nazisti o comunisti che fossero, i capi politici di oltre un cinquantennio, ambirono a mantenere e rafforzare la fabbrica, popolandola di operai, impiegati, progettisti e di tutte le categorie lavorative necessarie a creare una città-falansterio.
Finito il regime, ovviamente, la nostra città-falansterio ha smesso di vivere. La fabbrica è pressochè chiusa. Moltissimi i disoccupati, tanti “fuggiti” verso la non lontana metropoli capitale.
Infine, la natura ha ripreso il sopravvento su territori che regimi bellicosi le avevano strappato molti anni prima. Ma quale è stato il risultato?
Si passeggia oggi tra i ruderi di qualcosa che fu e che non è più, nè più sarà, nonostante i tardi tentativi della residua popolazione.
Avete mai visto il cartone animato cult “Ken il guerriero”? Beh, fatevi una passeggiata in questa piccola città – o in altre analoghe dell’hinterland della capitale – e poi ne riparliamo insieme. Non c’è stata una guerra combattuta, nemmeno una tragedia nucleare. Eppure tutto appare come morto.
La natura, di contro, sembra essersi riappropriata dei propri spazi, ma in modo assolutamente incontrollato.
Altrove vi ho raccontato di una Romania bucolica, povera ma felice, fatta di villaggi che sembrano usciti da un museo delle tradizioni popolari.
No, qui non è così. Incapaci di comprendere la gravità di ciò che stava accadendo, gli amministratori locali non sono riusciti a intervenire in tempo. In ogni caso, sfido chiunque a fare qualcosa di importante senza fondi. Non voglio richiamare la vostra attenzione sulle dispendiose largizioni del nostro governo italiano per “riconvertire” alcune aree industriali del napoletano…
Ora, però, a fronte di luoghi di questo tipo, ove intervenire comporta investimenti notevoli, vorrei anche dire che ci sono zone – molte – dove uno sviluppo, come si direbbe oggi, “sostenibile”, porterebbe ad una crescita notevole e, forse anche ad un afflusso di capitali per garantire una rinascita nell’ambito di una pianificazione ambientale seria e ragionata.
In particolare, mi riferisco alle aree interne della Transilvania e alla vasta area del Delta del Danubio: microcosmi dal profondo interesse paesaggistico, etnico, ambientale, faunistico e sociologico.
Il mio grande timore è che il popolo rumeno non sia preparato ad uno sviluppo cosciente di queste aree e che arrivino ben presto – in molti casi, purtroppo, è già avvenuto – occidentalismi distruttori.
Un altro rischio è dato dall’impoverimento della cultura popolare, causato dall’allontanamento cronico dalle campagne, grave anche perchè va a sostituire una millenaria cultura popolare fatta di danze, feste, tradizioni e cibi con le “manele”, quelle chiassose canzoni rap-dance-gitane, interessanti, forse, di per sè, ma molto diverse da quella musica sentita e profonda che allietava i focolari di una volta e che oggi si ritrovano, alquanto svilite, solo a contorno di alcuni matrimoni.
Cercherò di descrivere, in seguito, per quello che ne so, la cultura popolare della Romania. Per adesso, nel chiudere questo intervento, vi saluto, restando sempre a mezzo tra indignazione e nostalgia. Se conoscete la Romania, mi capite sicuramente.